La disciplina del marchio nel settore agroalimentare

1. Introduzione

Il comparto agroalimentare risulta essere uno dei settori vitali per l’economia italiana ed il c.d. “Made in Italy” agroalimentare continua ad affermarsi nel panorama economico attuale quale assoluto punto di forza. Forza che, il prodotto agroalimentare italiano trae dalla sua intrinseca spendibilità e visibilità sul mercato, interno ed internazionale, riuscendo a coniugare le diverse ma fondamentali caratteristiche di gusto, tradizione e cultura.

La leva fondamentale per l'espansione del comparto è sicuramente rappresentata dalla sua forte vocazione all’esportazione, riuscendo a riscuotere un assoluto successo sui più svariati mercati, con caratteristiche e tipicità anche molto diverse a seconda dei casi. I più recenti report  sullo stato attuale del settore, realizzati da numerosi centri studi afferenti sia alle associazioni di categoria che alle associazioni di consumatori, sottolineano unanimemente l'eccellente performance del trend dell’export del food and beverage italiano, in particolar modo quello che ha ad oggetto i prodotti universalmente riconosciuti quali simboli indiscussi del Made in Italy, al punto che si sarebbe verificata una progressiva crescita del grado di apertura internazionale del settore a ritmi superiori a quelli della nostra industria manifatturiera.

Tuttavia, nonostante l’enorme successo riscontrato dall’agroalimentare italiano sul mercato globale, esso è drammaticamente intaccato da frequenti fenomeni di frodi commerciali come, ad esempio, la contraffazione ed il c.d. “Italian sounding”, che potrebbero indebolirne sia la reputazione che la crescita economica e, di conseguenza, eroderne il potenziale fatturato. Il marchio dunque, soprattutto nel settore agroalimentare, rappresenta non solo l’identità e l’origine del prodotto ma anche una garanzia di qualità.

2. Il marchio nei prodotti agroalimentari

Il marchio d’impresa, a norma dell’art. 7 del Codice della Proprietà Intellettuale (CPI), può essere costituito da “tutti i segni, in particolare le parole, compresi i nomi di persone, i disegni, le lettere, le cifre, i suoni, la forma del prodotto o della confezione di esso, le combinazioni o le tonalità cromatiche, purché siano atti:

  1. a distinguere i prodotti o i servizi di un'impresa da quelli di altre imprese;
  2. ad essere rappresentati nel registro in modo tale da consentire alle autorità competenti ed al pubblico di determinare con chiarezza e precisione l'oggetto della protezione conferita al titolare”.

 

Si evince allora che il marchio, anche nel settore di cui si discute, abbisogna della registrazione per godere di una completa tutela nei confronti di comportamenti sleali e, quindi, diminuire il rischio di problematiche che potrebbero avere un impatto diretto sul business dell’impresa che di esso detiene i diritti. Esistono tre diverse tipologie di registrazione del marchio:

  • nazionale;
  • europea;
  • internazionale.

 

È l’imprenditore che sceglie il tipo di registrazione più consono al suo marchio ed al grado di tutela che vuole ottenere, scelta basata non solo su una mera valutazione territoriale del mercato in cui si opera bensì anche delle prospettive di sviluppo del prodotto.

Il marchio, inoltre, al fine di poter essere legittimamente registrato ed usato dall’impresa deve rispettare una serie di imprescindibili requisiti, quali:

  • novità, nel senso che esso non deve essere stato usato in precedenza come marchio, ditta o insegna per prodotti o servizi identici o simili;
  • capacità distintiva, cioè, deve essere strutturato in maniera tale da permettere la precisa individuazione dei prodotti da esso contrassegnati;
  • liceità.

 

Per quanto riguarda invece la validità temporale del marchio d’impresa, secondo la disciplina normativa attualmente in vigore, esso risulta essere valido per un periodo di dieci anni dal deposito della domanda e può essere rinnovato ogni dieci anni all’infinito; ciò concede all’impresa che detiene i diritti sul marchio una tutela molto forte in termini di protezione.  Nel settore food & beverage, i parametri mediante i quali possono essere classificate le tipologie di marchi sono diversi:

  • generale o speciale;
  • espressivo;
  • geografico;
  • collettivo o individuale;
  • di garanzia o certificazione;
  • di selezione o raccomandazione;
  • in serie o famiglia di marchi.

 

3. Rapporto tra marchi e indicazioni geografiche qualificate

Le indicazioni geografiche qualificate, divise in denominazioni di origine protetta (DOP) e indicazioni geografiche territoriali (IGT), sono disciplinate dalle seguenti fonti normative di matrice europea:

  • regolamento (UE) N. 1151/2012 sui regimi di qualità dei prodotti agricoli e alimentari;
  • regolamento (CE) 110/2008 per le bevande spiritose;
  • regolamento (UE) n. 251/2014 per i vini aromatizzati;
  • regolamento (UE) n. 1308/2013 (O.C.M. Unica) per i vini.

 

Le suddette indicazioni rientrano, così come i marchi, all’interno del novero normativo inerente alla tutela della proprietà intellettuale. Ma quale relazione intercorre tra queste ultime ed il marchio d’impresa nel contesto agroalimentare? Innanzitutto, analizzando la citata normativa, precisamente l’art. 7, comma 1, lett. c) del Regolamento (UE) 2017/1001 e l’art. 13, comma1, lett. b) del Codice della Proprietà Industriale, si evince la sussistenza del divieto di registrazione di marchi d’impresa realizzati in maniera esclusiva mediante l’utilizzo di segni o indicazioni che vadano ad indicare la provenienza geografica del prodotto. Ciò allo scopo tutelare il consumatore il quale, operando in tal modo, potrebbe essere indotto a valutare l’esistenza di una connessione diretta tra le qualità e le caratteristiche essenziali del prodotto e quel determinata zona geografica. Agli operatori economici che si avvalgono dell’uso delle denominazioni di origine protetta e delle indicazioni geografiche tipiche è però concesso l’utilizzo del marchio collettivo, cioè quel marchio che, secondo quanto disposto dall’art. 11 CPI, “consente di distinguere i prodotti e i servizi dei membri dell'associazione di categoria che detiene il marchio da quelli di altre imprese che non appartengono a tale associazione”. La ratio dei marchi collettivi è, dunque, quella di fornire informazioni ai consumatori che il produttore di quel determinato bene appartiene ad una specifica associazione di categoria e che, in virtù di tale appartenenza, ha il diritto di utilizzare il marchio con l’indicazione del territorio di riferimento. Non operando in tal modo, la normativa permetterebbe un esclusivo diritto di sfruttamento dell’indicazione geografica e, di conseguenza, dei vantaggi economici che da ciò derivano, in capo ad un solo imprenditore: è infatti previsto che soltanto le persone giuridiche di diritto pubblico e le associazioni di categoria di fabbricanti, produttori, prestatori di servizi o commercianti ne possano richiedere la registrazione, con espressa esclusione delle società di capitali. Una novità di rilievo introdotta nel Codice della Proprietà Industriale dal d.lgs. 20 febbraio 2019, n. 15, in recepimento della Direttiva (UE) 2015/2436, è costituita dalla netta distinzione tra marchi collettivi e marchi di certificazione, sia sotto il profilo della legittimazione attiva dei richiedenti sia sotto il profilo oggettivo, e dall’introduzione di una disciplina ad hoc per i marchi di certificazione; l ’art. 11 bis CPI prevede infatti che titolari di un marchio di certificazione possano essere le persone fisiche o giuridiche, tra cui le istituzioni, le autorità ed organismi accreditati ai sensi della vigente normativa in materia di certificazione a garantire l'origine, la natura o la qualità di determinati prodotti o servizi per i quali il marchio deve essere registrato, a condizione che non svolgano un'attività che comporta la fornitura di prodotti o servizi del tipo certificato. È, inoltre, previsto che un marchio di certificazione può consistere in segni o indicazioni che nel commercio possono servire per designare la provenienza geografica dei prodotti o servizi. In entrambi i casi, alla domanda di registrazione va necessariamente allegato il regolamento d’uso dei marchi, con indicazione dei controlli e delle sanzioni previste.

Rilevante in tal senso si è rivelata la pronuncia della Corte di Cassazione che, con la sentenza 23/10/2019, n.27194, ha stabilito che “la differenza di funzioni sussistente tra marchi e indicazioni geografiche o denominazioni di origine protetta non esclude, alla stregua della normativa e della giurisprudenza europea, l’interesse comune, rappresentato dall’uso del nome geografico nell’ambito delle produzioni agricole e alimentari, quale vantaggio competitivo che l’indicazione dell’origine è in grado di garantire al prodotto, per cui il titolare di un marchio registrato in buona fede in epoca precedente la denominazione di origine protetta ben può proseguire, nonostante la successiva registrazione di detta denominazione protetta, l’uso del marchio, ai sensi dell’art. 14, comma 2, del Regolamento n. 510 del 2006, laddove non ricorrano ragioni di nullità o decadenza del marchio stesso”.

In ogni caso, ex art. 6, Regolamento (UE) 2012/1151, non possono registrarsi come DOP le denominazioni ormai divenute generiche e comuni, dunque non più distintive di un legale territorio-qualità, i nomi di una varietà vegetale o di una razza animale tali da indurre in errore il consumatore quanto alla vera origine del prodotto, nonché in nomi omonimi ad altri già registrati quali DOP o IGP.

4. Marchi espressivi e marchi descrittivi

Numerosi operatori del comparto agroalimentare non sempre procedono alla registrazione di marchi formati da segni immediatamente ricollegabili concettualmente con i prodotti che sono destinati a contraddistinguere. Un siffatto marchio viene però ad essere carente del requisito essenziale di capacità distintiva: si tratta del c.d. “marchio descrittivo”, cioè quel marchio la cui funzione si riduce alla mera descrizione dei prodotti per i quali viene adottato. Un marchio può risultare descrittivo da un punto di vista meramente semantico, ad esempio nel caso in cui il significato riconduce, nell’immediata percezione del consumatore, ai prodotti contraddistinti o alla loro natura. Altresì, un marchio può risultare descrittivo anche sotto il profilo grafico, ossia quando un elemento figurativo presente in esso descrive i relativi prodotti ovvero la loro funzione. L’invalidità di un marchio descrittivo, per mancanza di capacità distintiva, trova apposita previsione normativa nell’art. 13 del CPI.

Altra categoria di marchi, ritenuta valida dalla normativa, è quella dei c.d. “marchi espressivi” cioè quei segni che, anche se parzialmente composti da espressioni non comuni, presentano un chiaro collegamento con caratteristiche o funzioni dei prodotti che contraddistinguono. Tra i marchi espressivi, rientra la particolare categoria di quei marchi che alludono a caratteristiche nutrizionali o salutistiche dell’alimento. Il Regolamento (CE) 1924/2006, all’art. 1, comma 3, prevede che “un marchio, denominazione commerciale o denominazione di fantasia riportato sull’etichettatura, nella presentazione o nella pubblicità di un prodotto alimentare che può essere interpretato come indicazione nutrizionale o sulla salute può essere utilizzato senza essere soggetto alle procedure di autorizzazione previste dal presente regolamento a condizione che l’etichettatura, presentazione o pubblicità rechino anche una corrispondente indicazione nutrizionale o sulla salute conforme alle disposizioni del presente regolamento”. Sempre in tema di marchi espressivi, sono da richiamare in maniera sintetica quei particolari marchi che comunicano l’impressione che un determinato prodotto derivi dalla lavorazione di ingredienti che, in realtà, nulla hanno a che fare con quel bene: è questo il caso riconducibile al c.d. “milk sounding”, operazione vietata in tutta l’Unione Europea, come ribadito anche dalla sentenza della Corte di Giustizia dell’Unione Europea del 14 giugno 2017, Causa C-422-2016. La ratio di tale divieto è da rinvenire nel fatto che nomi del genere possano trarre in inganno il consumatore circa l’identità e le qualità di un determinato alimento, portandoli a compiere scelte d’acquisto basate su percezioni errate, dunque in contrasto con i principi generali d’informazione di cui al Regolamento (UE) 1169/2011.

Infine, è da sottolineare che l’art. 13 CPI, però, prevede la possibilità che un marchio, che in origine risultasse privo della caratteristica di distintività, possa acquisire tale carattere a seguito di un suo uso commerciale e pubblicitario di misura consistente: si allude qui al c.d. “secondary meaning”. Dunque, marchi descrittivi e espressivi originariamente carenti di capacità distintiva e quindi non suscettibili di una valida tutela, possono essere riabilitati mediante un loro ampio e prolungato uso nel tempo, accompagnato da una consistente operazione comunicativa tramite pubblicità e azioni di marketing, che gli conferisca quell’efficacia tipica dei segni distintivi e il relativo grado di tutela.

5. Altre tipologie di marchi

Per completezza d’analisi è necessario elencare alcune particolari tipologie di marchi disciplinate dalla normativa sia italiana che unionale. Tali categorie sono le seguenti:

  • marchi di raccomandazione o di selezione, ossia i marchi appartenenti a soggetti che li utilizzano per comunicare che determinati prodotti di terzi sono stati da loro selezionati e vengono quindi raccomandati al pubblico;
  • marchi di commercio, che individuano il soggetto che si occupa della commercializzazione di quel prodotto. Tale segno può essere aggiunto a quello del produttore;
  • marchi di servizio, che contraddistinguono un servizio;
  • marchi di fabbrica, che indicano un determinato produttore;
  • marchi storici, i quali sono iscrivibili su apposito registro speciale istituito presso l’Ufficio Italiano Brevetti e Marchi su richiesta di chi, titolare o licenziatario di un marchio d’impresa, lo abbia impiegato per almeno cinquanta anni continuativi per contrassegnare beni o servizi di un’impresa di particolare importanza. Se le condizioni previste dal legislatore sono soddisfatte, il richiedente può utilizzare il logo “marchio storico”.

 

di Dott. Antonino Guarino