Permanenza del vincolo di affinità dopo il divorzio

SOLLEVATA LA QUESTIONE DI LEGITTIMITÀ COSTITUZIONALE SULLA PERMANENZA DEL VINCOLO DI AFFINITÀ DOPO IL DIVORZIO

Il 23 giugno 2023, con l’ordinanza interlocutoria n. 18064, la prima sezione civile della Suprema Corte ha ritenuto rilevante e non manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale dell'art. 78, comma 3, cod. civ., implicitamente richiamato dall'articolo 64, comma 4, del Testo Unico degli Enti Locali, c.d. T.U.E.L . Quest’ultima disposizione sancisce il divieto per i soggetti legati da un vincolo di affinità con il sindaco in carica di entrare a far parte della relativa giunta e di essere nominati rappresentanti del comune o della provincia.

In particolare, ad essere rimessa al sindacato di costituzionalità è stata la parte dell’articolo 78  in cui si stabilisce che "l'affinità non cessa per la morte, anche senza prole, del coniuge da cui deriva, salvo che per alcuni effetti specialmente determinati. Cessa se il matrimonio è dichiarato nullo, salvi gli effetti di cui all'art. 87, n. 4”.

Gli Ermellini, data l’importanza di tale questione, hanno ritenuto che quest’ultima non potesse essere risolta attraverso un’interpretazione costituzionalmente orientata della normativa da applicare ma richiedesse un definitivo pronunciamento del Giudice delle leggi in merito alla sua conformità agli artt. 2, 3 e 51 della Carta costituzionale, i quali costituiscono dei pilastri del nostro ordinamento costituzionale.

Il caso che ha poi portato all’ordinanza sopra citata, trae origine dal rigetto da parte del Consiglio comunale di Caposele, con deliberazione del 16 luglio 2019, della richiesta, formulata da due cittadini, di revocare la nomina del neoeletto vicesindaco per incompatibilità tra la carica ad esso assegnata e la sua asserita qualità di affine, ai sensi dell’articolo 64, quarto comma, T.U.E.L; quest’ultimo, infatti, era stato sposato con la sorella del sindaco del Comune dalla quale, tuttavia, aveva, poi, divorziato.

Non soddisfatti, i due istanti si erano rivolti al Tribunale di Avellino, il quale, ritenendo che non sussistesse alcuna violazione dell’articolo 64 T.U.E.L., aveva, a sua volta, respinto la domanda avanzata dagli attori. Di diverso avviso era stata, invece, la successiva pronuncia della Corte di Appello di Napoli, che aveva, invece, riscontrato l’incompatibilità della carica assunta dal vicesindaco, ritenendo che, in virtù dell’interpretazione letterale dell’articolo 78 c.c., il vincolo di affinità permanesse anche nel caso di divorzio tra i due coniugi.

Tale divergenza di vedute all’interno della giurisprudenza deriva dal persistente vuoto normativo riscontrabile in merito alla questione della cessazione o meno degli effetti del vincolo di affinità a seguito del divorzio.

Il vincolo di affinità, come si legge al terzo comma dell’articolo 78 c.c., recante la disciplina generale dei rapporti di affinità, non è indissolubile ma cessa ogni qual volta il matrimonio venga dichiarato nullo. Quid iuris nel caso in cui, invece, intervenga il divorzio?

L’articolo 78 c.c. nulla dice in merito a tale eventualità. Tale disposizione è, infatti, un chiaro retaggio del periodo in cui il Codice civile venne redatto; all’epoca, più precisamente nel 1942, non era ancora stato previsto l’istituto del divorzio, il quale venne introdotto solo nel 1970 con la famosa legge n. 898. Come messo in luce dalla Suprema Corte nell’ordinanza menzionata, il legislatore non solo non è mai intervenuto a modificare la norma codicistica, ma ha anche introdotto nel T.U.E.L. una disposizione che, “ seppur adottata in epoca largamente posteriore all’approvazione della legge sul divorzio, non si cura di considerare le conseguenze della dissoluzione del vincolo matrimoniale da cui pure l’affinità trae origine e che, in qualche misura, ne dovrebbe subire le conseguenze”.

Non si comprende, poi, il motivo di tale silenzio, soprattutto se si considera che, con legge n. 151 del 1975, è stato, invece, modificato il testo dell’articolo 87, primo comma, n. 4 cod. Tale disposizione ha, infatti, esteso il divieto di contrarre matrimonio tra affini anche nel caso in cui sia intervenuto il divorzio e non più solo, come previsto originariamente, limitatamente al caso della intervenuta nullità dell’unione matrimoniale. All’interno della giurisprudenza di merito, non manca chi non abbia ravvisato nella permanenza del vincolo di affinità limitatamente alla specifica ipotesi dell’impedimento matrimoniale un’eccezione alla regola generale della cessazione degli effetti derivanti dal vincolo di affinità, di cui all’art. 78 c.c., non solo nel caso di nullità del matrimonio ma anche di divorzio.

A tentare di arginare tale incertezza normativa, è, dunque, intervenuta, con l’ordinanza citata, la Corte di Cassazione. In particolare, gli Ermellini, nel rimettere la questione alla Corte costituzionale, hanno sancito che “l’annullamento del matrimonio e il suo scioglimento sono situazioni accomunate da un’evidente vicinanza sotto il profilo effettuale, dato che in entrambi i casi interviene un’iniziativa giudiziale funzionale alla demolizione del vincolo matrimoniale. [..] Ciò nonostante, in caso di annullamento del matrimonio il venir meno del vincolo coniugale comporta la cessazione del rapporto di affinità e abilita l’oramai ex affine a ricoprire la carica pubblica. Accesso alla carica che, invece, è precluso all’affine del divorziato”. Ne deriva che, in tal modo, situazioni analoghe sono regolate in maniera ingiustificatamente dissimile tra loro con una evidente violazione del principio di eguaglianza sostanziale, sancito dall’articolo 3 della Costituzione.

Inoltre, è evidente che tale ingiustificata diversità di trattamento, come sottolineato dalla Suprema Corte, sia in contrasto con i principi sanciti dagli articoli 2 e 51 della Costituzione. Infatti, applicando agli affini, il cui rapporto sia sorto da un vincolo matrimoniale ormai sciolto, il divieto sancito dall’articolo 64 TUEL, non si fa altro che impedire a questi ultimi “di esercitare il proprio diritto di accedere a un ufficio pubblico in condizioni di eguaglianza nonostante che il diritto di elettorato passivo rientri fra quelli inviolabili riconosciuti dall'art. 2 Cost. e possa subire restrizioni soltanto nei limiti strettamente necessari alla tutela di altro interesse costituzionalmente protetto e secondo la regola della necessità e della ragionevole proporzionalità”.

Alla luce di quanto detto, al fine di garantire in tale ambito il rispetto dei principi fondamentali tutelati dal nostro ordinamento costituzionale, l’intervento della Corte costituzionale, appare, quindi, necessario.

di Dott.ssa Chiara Saso