Operare in ricerche reputazionali, indagini pre-assunzione, background-check in Italia

Ecco perché è bene affidarsi ad un legale

Introduzione

Sempre maggiore diffusione e richiesta incontrano le così dette ricerche reputazionali, ovvero indagini condotte sulla reputazione di un individuo, per scopi generalmente di affari, quali l’assunzione di un dipendente, la conclusione di un partenariato, l’affidamento di un ramo della propria azienda ad un manager, la ricerca di una controparte imprenditoriale e così via. Questi servizi possono anche essere resi da operatori professionali specializzati nel reperimento di notizie atte a ricomporre il così detto “background reputazionale”, o con terminologia ristretta alla mera presenza in rete, la “digital presence” di un individuo, portando i frutti della ricerca al soggetto committente la ricerca.

Complessità in diritto

L’attività in sé è lecita, in quanto non è vietata, ma la risposta al quesito sulla liceità di questa nuova prassi non può fermarsi qui. Occorre tenere a mente che la materia non è normata da una disciplina ad hoc. L’analisi della reputazione di un individuo incontra limiti severi e precisi. Sappia il lettore sin da ora che quello che può legittimamente farsi, in questo argomento, può essere definito solamente “in negativo”, enucleando i vari limiti, i problemi, i divieti. Quanto non ricada entro le preclusioni, può essere considerato il terreno su cui legittimamente muoversi. Alla fine della trattazione nondimeno verranno tirate le fila e si proverà a fornire un quadro di quello che può legittimamente essere fatto.

Gli interessi in gioco

La trattazione in diritto sconta la principale difficoltà nel complesso bilanciamento fra gli interessi in gioco, che contribuiscono tutti a restringere l’ambito del giuridicamente possibile in relazione all’analisi reputazionale. Sia chiaro, restringere, non vietare in toto.

Privacy, diritto alla reputazione, Statuto dei lavoratori, diritto all’onore e alla reputazione, diritto all’oblio, sono tutti temi da tenere presenti e che saranno trattati nel prosieguo.

Questo sia inteso non per scoraggiare l’attività, ma per mettere in guardia sul fatto che essa deve essere intrapresa da soggetti preparati in diritto, ovvero affiancati da legali che possano vantare un solido expertise nel campo.

Diffamazione: a cavallo tra giudizio civile e penale

Una trattazione deve indubbiamente muovere dal concetto di diffamazione. Occorre intendersi su di essa. Diffamazione in senso stretto è un titolo di reato previsto dall’articolo 595 del codice penale. Consiste nell’offesa all’altrui reputazione presso soggetti terzi, ed è punita con la reclusione sino ad un anno o con la multa sino a milletrentadue euro. Se l’offesa consiste nella attribuzione di un fatto determinato, la pena è aumentata. Ulteriori aumenti di pena sono previsti quanto il fatto sia commesso con il mezzo della stampa ovvero rivolto a corpo politico, amministrativo, giudiziario, ma ciò esula dalle finalità di questa trattazione. Concentrandosi sulla diffamazione, ovvero la condotta di chi lede la reputazione altrui comunicando con più persone, deve tenersi presente che il requisito della pluralità di destinatari della comunicazione diffamatoria è assolto anche con due soli individui, né rileva la contestuale presenza degli uditori. Comunemente si ritiene – a torto – che basti riferire informazioni vere o comunque provare la verità di quanto affermato per porsi al riparo dalla condanna per diffamazione. Niente affatto. Ciò vale solamente per il diritto di cronaca o di critica politica, che sono garantiti dall’art. 21 della Costituzione, sotto determinate condizioni specificate dalla giurisprudenza, riassumibili in: continenza espositiva, pubblico interesse alla conoscenza del fatto, verità putativa. Ciò non è affatto vero per il delitto di diffamazione commesso da cittadini o privati. Non si è ammessi a provare la verità del fatto diffamatorio se non per dichiarazioni che attribuiscano un fatto determinato e la volontà del querelante. In altre parole, la verità non è una esimente (tolti alcuni particolarissimi casi che qui non rilevano, quale quello del caso in cui venga attribuito un fatto determinato ad un pubblico ufficiale).

Peraltro, si è detto prima, occorre intendersi sulla “diffamazione”. Infatti, essa può essere intesa non solo come il reato, ma può assumere rilevanza civilistica, quale condotta che porta al risarcimento del danno. Le maglie del profilo civilistico della diffamazione sono più larghe di quello penale.  Non solo perché rilevante privatisticamente è l’art. 2043 Cod. civ. che si limita a prevedere che chi cagiona un danno ingiusto è tenuto al risarcimento del danno, con ciò punendo anche condotte colpose (mentre per il reato di diffamazione è richiesto il dolo generico, cioè la volontà di fare dichiarazione con la consapevolezza che danneggiano la altrui reputazione, ma non anche la volontà di danneggiare la reputazione, il che è invece tecnicamente detto dolo specifico); inoltre il diritto penale conosce un maggior numero di cause di non punibilità. In altre parole, poiché può esservi “diffamazione” per un giudice civile senza che un giudice penale possa pronunciare condanna, normalmente il soggetto offeso dalle dichiarazioni preferirà agire in sede civile. Le differenze tra diffamazione in sede civile e penale non vanno esagerate, in ogni caso. Perché una condotta conduca al risarcimento del danno ai sensi dell’art. 2043 del Codice civile, occorre che il danno procurato sia “ingiusto”. In altre parole, l’attività posta in essere dal danneggiante deve essere illecita. Per semplificare sacrificando precisione, diremmo che astrattamente ogni qualvolta vi è diffamazione ai sensi della legge penale, vi sarà una corrispondente condotta rilevante in sede civile. Al contrario, quando un fatto non sarà punibile ai sensi della legge penale, probabilmente non vi sarà obbligo di risarcimento dinnanzi al giudice civile.

Basti solo accennare che compiere dichiarazioni pregiudizievoli per un individuo senza giustificato motivo viola uno di quei canoni mediante i quali l’ordinamento usa misurare la giustezza o la ingiustizia del danno, richiesta per generare il corrispondente obbligo risarcitorio, ossia il neminem laedere, cioè l’astenersi dall’arrecare danno ad alcuno.  Per questo si è detto che vi saranno condotte non rilevanti per il giudice penale che nondimeno costringeranno l’autore a risarcire il danno.

Il diritto all’integrità morale

Tenuto bene a mente quindi che la “diffamazione” civile non è solo il risarcimento per il danno arrecato dal reato di diffamazione, ma viene anzi usata nella pratica per indicare la lesione di diritti (diffamazione in senso ampio), si consideri ora il diritto alla integrità morale, diritto della persona costituzionalmente protetto, a sua volta esplicantesi nel diritto all’onore, nel diritto al decoro personale, alla reputazione. Tali diritti, alla cui lesione corrisponde l’obbligo di risarcire il danno, erano presidiati, ad esempio, dal reato di ingiuria, la quale non costituisce più reato.

Esse si connotano di uno speciale significato nelle relazioni commerciali, nelle quali la “reputazione” è concetto imprescindibile per poter operare sul mercato e concludere affari. Screditare alcuno senza giustificato motivo può, come ormai dovrebbe essere stato chiarito, non integrare una condotta penalmente rilevante; tuttavia impegnerà indubbiamente a risarcire il danno cagionato, giacché, si è detto, chiaramente viola il precetto del “alterum non laedere”, sempiterno canone di giustizia nei rapporti, tutt’ora ritenuto metro sul quale misurare se il danno arrecato a taluno è “ingiusto” o no.

La privacy

Ritenuta esaurita la trattazione sui temi di cui sopra, perché il lettore abbia tutti gli elementi, prima quindi di spiegare cosa è lecito fare in tema di “ricerche reputazionali”, vogliamo trattare un altro “macro-tema”. Il riferimento è alla “privacy”, comunemente definita come il diritto alla riservatezza. Senza dilungarsi in operazioni classificatorie, a seguito dell’arcinoto Regolamento UE 2016/679, sussiste un diritto soggettivo a che i propri dati siano trattati in maniera legittima.

Per trattamento dei dati personali, fra le altre cose, si intende qualunque operazione concernente la raccolta, la registrazione, la consultazione, l'estrazione, il raffronto, l'utilizzo, l'interconnessione, la comunicazione, la diffusione, financo la eliminazione. Perché il trattamento sia lecito, deve fondarsi su “basi giuridiche”. Esse sono situazioni, legislativamente individuate, che giustificano il trattamento. Chi dovesse trattare dati in maniera non lecita, si esporrebbe non solo al risarcimento dei danni non patrimoniali per la lesione del diritto alla riservatezza, bensì anche dei danni patrimoniali e non ulteriormente prodotti dal trattamento illecito stesso. Un esempio è la illecita diffusione di informazioni personali di un individuo, quali il numero del suo conto corrente. Non solo il danno sussiste in re ipsa, giacché il diritto alla riservatezza e liceità del trattamento è violato, bensì potrebbero sussistere ulteriori danni (un furto di identità e prelievo fraudolento di somme dal conto corrente, per aderire all’esempio fatto prima).

Una delle basi giuridiche che giustificano il trattamento dei dati personali è il consenso, ma ciò potrebbe – con un buon grado di certezza – essere considerato non sufficiente nel caso del consenso prestato al trattamento dei dati per finalità di ricerche reputazionali (perché il consenso deve essere prestato liberamente e i rapporti di forza socio-economici sono il parametro attraverso il quale misurare il grado di libertà che ha connotato la prestazione del consenso). Nelle relazioni worker-employer il consenso non è mai una base giuridica su cui affidarsi, suppliscono altre basi, quali la necessità di trattare i dati per dare esecuzione ad un contratto o anche a misure pre-contrattuali. Ciò non riguarda i Curriculum Vitae spontaneamente trasmessi. Di fatti, nei limiti in cui il trattamento è limitato alla conclusione del contratto, i dati contenuti nel CV possono essere lecitamente trattati. La base giuridica per il trattamento sarà pertanto, più che una misura pre-contrattuale, un legittimo interesse del titolare del trattamento, che si sostanzia nel diritto di verificare.

Tuttavia, quanto detto non è sufficiente a porsi al riparo dalle pesanti sanzioni che presidiano il rispetto del Regolamento UE in materia di privacy.

Il già citato Regolamento UE 679 del 2016 impone di informare gli interessati mediante una comunicazione (detta “informativa”) che un trattamento dei loro dati personali è in corso, di rendere note le finalità del trattamento, le categorie di dati trattati, i modi per esercitare il diritto di accesso e il responsabile del trattamento. In altre parole, chi si vorrà avvalere delle indagini reputazionali dovrà rendere chiaro sin da subito al contraente l’intenzione di avvalersi del “background check”, dando così la possibilità all’interessato di opporsi. Dovrà inoltre essere fornita la informativa (predisposta di norma dall’operatore che rende il servizio di ricerca reputazionale), il cui contenuto è definito dal Regolamento, all’art. 14, ed è stato spiegato sopra.

Rimane quindi fermo il diritto dell’interessato di accedere ai dati, di prendere visione del dossier sul suo conto, di richiedere la rettifica, di richiedere l’eliminazione dei dati, e così via.

Rimanga chiaro si da ora che la conservazione dei dati non dovrà protrarsi oltre il tempo che necessario per l’espletamento delle finalità per cui son stati raccolti, o per consentire l’esercizio dei diritti dell’interessato, o per altre ragioni previste per legge, che esulano dallo scopo di questa trattazione.

Diritto all’oblio

Prima di volgere all’ultimo tema di natura giuslavoristica, è d’uopo brevemente accennare il diritto c.d. all’oblio, o anche “right to be forgotten”. Detta situazione giuridica soggettiva altro non sarebbe che il diritto a che vicende risalenti nel tempo, la cui conoscenza non è più di alcun interesse pubblico, ad essere ricondotte ad una dimensione intima, privata, personale. La sua prima enunciazione giurisprudenziale si è avuta nel celebre caso “Google Spain” della Corte di Giustizia dell’Unione Europea, la quale ha chiarito che le norme dei Trattati dovevano essere interpretate in modo da garantire ai singoli il diritto a che notizie su di loro, non più rispondenti a pubblico interesse, venissero deindicizzate dai motori di ricerca e smettessero di essere pubblicate. Questo è un aspetto in evoluzione, del quale occorre senz’altro tenere conto.

Lo Statuto dei lavoratori e le indagini pre-assunzione

Il tema ultimo da trattare, prima di tirare le conclusioni, è quello della disciplina giuslavoristica. I dottori del diritto del lavoro usano definire “indagini pre-assunzione” quelle particolari ricerche volte a conoscere ambiti della persona del lavoratore ai fini del procedimento di selezione del personale. Lo Statuto dei Lavoratori (legge 300 del 1970) vieta di indagare “anche a mezzo di terzi, sulle opinioni politiche, religiose o sindacali del lavoratore, nonché su fatti non rilevanti ai fini della valutazione dell'attitudine professionale del lavoratore” (art. 8).

In sede pertanto di “indagini pre-assunzione” è fatto divieto di indagare sulle caratteristiche morali, psicologiche, sessuali, sentimentali, comportamentali, intime, familiari dei candidati. Il trattamento illecito di questi dati è punito con particolare severità in sede penale, non solo quindi con la sanzione pecuniaria (art. 171 del novellato d. lgs. 196/2003).

Non sussiste alcun dubbio che il trattamento dei dati in sede di indagini finalizzate alla selezione del personale debba essere conforme alle regole in tema di privacy.

Conclusione

Ora può finalmente spiegarsi in cosa può lecitamente consistere una attività professionale di ricerca reputazionale.

Essa deve attenersi, se finalizzata alle assunzioni di personale, entro i ristretti ambiti permessi dallo Statuto dei Lavoratori (quelli che hanno attinenza con la valutazione della attitudine professionale del candidato), tralasciando ogni velleità di indagine su ambiti che non possono essere indagati, ma che con disarmante candore molte agenzie di investigazione pre-assuntiva offrono, ovvero indagini sul temperamento del lavoratore, sul suo comportamento fuori dall’ufficio e così via. L’indagine dovrà focalizzarsi, cioè, sulla capacità intellettiva o manuale del candidato allo svolgimento dell’attività di lavoro proposta.

Indagare le cause di rottura con il precedente datore di lavoro, ad esempio, è attività offerta da pressoché ogni agenzia di investigazione pre-assuntiva senza la minima cognizione dei rischi legali che vi sottendono. Al lavoratore deve essere stato comunicato, per ragioni di Privacy, che queste operazioni verranno condotte. Egli ha diritto a prendere visione delle informazioni raccolte che lo riguarda, del “dossier” che lo concerne.

Può sembrare superfluo ribadire che la continenza espositiva dovrà essere osservata con la massima attenzione, che potranno essere impiegate, nei report di valutazione dei candidati, solo forme neutre, asettiche, mai offensive. Non vi è nessun problema nell’osservare, ad esempio, che talune non è in buoni rapporti con un proprio precedente datore di lavoro. Potrebbe essere invece foriero di responsabilità – non solo in sede civile – affermare che taluno ha perso il lavoro perché era un disonesto, perché rubava, così via. Diverso è affermare che taluno ha interrotto il proprio precedente rapporto di lavoro a seguito di procedimento disciplinare che ha comportato il licenziamento per giusta causa.

Le informazioni incluse nei report resi al committente debbono poi essere per quanto possibile verificate, rese disponibili al soggetto il cui background si va sondando, consentendo l’integrazione delle informazioni mancanti, la rettifica. Per nessun motivo essi debbono essere conservati oltre il tempo necessario, diffusi, trasmessi a soggetti terzi. La conservazione in luogo sicuro è di fondamentale importanza.

Non possono essere comunicate informazioni che ledano la reputazione del candidato, giacché chi dovesse farlo, se non comunque per rispondere del reato di diffamazione, potrebbe trovarsi citato per danni. Quanto detto è senza pregiudizio per un diritto di critica e di analisi, espressione a sua volta della più generale libertà di manifestazione del pensiero, che può sostanziarsi in una critica tecnica, non offensiva, continente, mai mirata a screditare. Affermare, ad esempio, che la “presenza digitale” di un candidato è da migliorare, in quanto presenta determinate criticità, e portare all’attenzione del cliente determinati aspetti che potrebbero non essere in linea con la sua politica aziendale, molto difficilmente potrà vittoriosamente fondare pretese al risarcimento del danno. Egualmente dovrà, di norma, evitarsi di includere notizie eccessivamente risalenti nel tempo.

Questo metodo “scientifico”, di trasparenza e di analisi solo costruttiva e mai tesa a screditare, pur senza tacere sui punti deboli, e salvo comunque il diritto di verificare – quindi se necessario smentire – quanto inserito in un Curriculum Vitae, deve costituire l’ordinario metodo di lavoro di chi voglia offrire questo servizio in maniera professionale.

Quanto detto si applica indifferentemente ad una analisi reputazionale condotta su persone fisiche, siano o meno lavoratori, imprese, persone giuridiche, enti, organizzazioni.

Occorre indubbiamente rivolgersi ad un legale, affinché questi elabori dei protocolli che consentono a chi mira ad offrire il servizio di ricerche reputazionali sul mercato di operare in autonomia e sicurezza, ponendosi al riparo da citazioni per danno.

Va fuggita l’illusione del risparmio che si può conseguire gestendo in autonomia, oppure nel mancato rispetto della legge, l’attività in questione. Il rischio spazia da citazioni in sede penale, alle sanzioni amministrative del Garante della Privacy, a domande giudiziali di risarcimento del danno. Offrire i report in maniera occulta, di nascosto dagli individui interessati, nella speranza di sottrarsi alle forme e agli adempimenti legali, potrebbe condurre a esiti nefasti, non solo vanificando quanto risparmiato, ma anche perdendo nettamente rispetto a quanti scelgono di seguire la via più prudente e lecita.

Si concluda con questa riflessione. Talvolta il risparmio conseguito ignorando le prassi legali è meramente apparente. Solo a titolo esemplificativo, consentire la rettifica risponde anche ad un interesse del soggetto che elabora i report, poiché, avendo dato all’interessato la possibilità di dialogare, ci si pone al riparo da azioni di risarcimento per avere trattato e comunicato dati non corretti o non rispondenti al vero, e si ottiene un numero di informazioni maggiore con minore sforzo.