Diffamazione online: è punibile magistrato che critica aspramente un ufficio giudiziario?

Cassazione Civile, SS.UU., sentenza 17/03/2017 n° 6965

L’inizio di questo 2017 sembra essere sempre più caratterizzato da una grande attenzione da parte della Corte di Cassazione in direzione dell’applicabilità della disciplina della diffamazione nel caso di delitto commesso online, sia sui social networks che sui blog.

Affermata la natura aggravata, ma non commessa a mezzo stampa, della diffamazione posta in essere in internet, in seno a Piazza Cavour si è dovuto affrontare il caso di alcune frasi ingiuriose pubblicate online da un magistrato.

Accadeva infatti che, a seguito della condivisione su un blog da parte di un magistrato di alcune frasi – fra cui “come se l’intera avvocature, senza distinguere fra avvocati preparati e validi e vere e proprie capre, fosse la vittima innocente di un sistema nazi-fascista, deposta ed autoreferenziale, che non lascia loro diritti né spazi operativi […]” –, la Sezione disciplinare dell’Ordine ritenesse violati i principi di riserbo ed equilibrio imposti ai magistrati dall’art. 1 del D.Lgs. n. 109 del 2006 con l’aggravante, inoltre, della modalità di espressione utilizzata, ritenuta gravemente scorretta e diffamatoria nei confronti dell’intero foro cui si faceva riferimento.

La vicenda ha quindi permesso alla Corte di Cassazione di evidenziare il bilanciamento fra la libertà di espressione costituzionalmente sancita e garantita e la figura del magistrato, con riferimento alla concreta portata della disciplina dell’art. 21 Cost. e della diffamazione sul terreno dei blog online, intesi come vere e proprie agorà telematiche, aperte al pubblico confronto con chiunque e, dunque, anche con potenziali parti processuali e difensori, con la conseguente possibilità di incidere su rapporti che, per loro natura, devono rimanere circoscritti alle aule di giustizia.

La disamina operata dalle Sezioni Unite si muove principalmente su due differenti piani: in primo luogo sulla natura della diffamazione e sulla sua insussistenza nel caso di offesa rivolta in incertam personam e, successivamente, sull’applicabilità della libertà costituzionale ai magistrati o, per meglio dire, sull’impossibilità di porre limiti a quanto sancito dall’articolo 21 della Costituzione.

Sotto il primo profilo, gli Ermellini si limitano a fare espresso richiamo alla loro stessa recente giurisprudenza ed al principio per cui il reato di diffamazione è costituito dall’offesa alla reputazione di una persona determinata e non può essere, quindi, ravvisato nel caso in cui vengano pronunciate o scritte frasi offensive nei confronti di una o più persone appartenenti ad una categoria anche limitata se le persone cui le frasi si riferiscono non sono individuabili (ex multis Cass. Pen., sez. V, 23 febbraio-9 giugno 2016, n. 24065 e Cass. Pen., sez. V, 19 settembre 2014, n. 51096).

Orbene, nel caso sottoposto all’attenzione della Corte, la Sezione disciplinare dell’Ordine, dopo aver correttamente rilevato che l’offesa era rivolta in incertam personam, si era erroneamente discostata da tale consolidato orientamento.

Ben più significativo è il secondo punto all’esame della Corte: difatti, la Sezione disciplinare, pur non dubitando che la libertà di manifestazione del pensiero garantita dall’art. 21 Cost. sia riferibile, come dal tenore letterale, a chiunque e, dunque, anche al magistrato sia nell’esercizio che al di fuori delle funzioni nei limiti e nei parametri fissati dalla giurisprudenza – interesse pubblico, verità e continenza – ha ritenuto che la semplice manifestazione del pensiero, ancorché in ipotesi eccedenti il limite della continenza, ove si esplichi nella partecipazione ad un dibattito sui temi dell’amministrazione della giustizia in un determinato ufficio giudiziario, comporti essa stessa esercizio delle funzioni, potendo quindi integrare l’illecito disciplinare di cui all’art. 2, lett. d) del D.Lgs. n. 109 del 2006.

Tale ricostruzione risulta tuttavia priva di alcun fondamento, consistendo in un improprio allargamento della nozione di esercizio delle funzioni del magistrato non supportato né dal tenore letterale né dalla ratio della disposizione applicata, la quale fa riferimento ad un generale comportamento scorretto del magistrato nei confronti “delle parti, dei loro difensori, dei testimoni o di chiunque abbia rapporti con il magistrato nell’ambito dell’ufficio giudiziario”.

Ragionare diversamente condurrebbe infatti ad affermare l’esistenza, in evidente contrasto con la norma costituzionale, di un divieto per i magistrati di partecipare a forum di discussione fondato sulla mera possibilità che a tali sedi di discussione possono partecipare potenziali parti processuali e difensori, mentre i rapporti con tali soggetti devono necessariamente rimanere circoscritti alle aule di giustizia.

Conseguentemente, gli Ermellini hanno affermato che la manifestazione del pensiero di un magistrato non cessa di costituire l’espressione di una libertà costituzionale nemmeno nell’ipotesi in cui abbia ad oggetto opinioni relative a temi inerenti all’organizzazione di un ufficio giudiziario ed al suo funzionamento, ovvero al comportamento dei soggetti che operano in quell’ufficio, purché – come evidenziato in precedenza – la manifestazione del pensiero non si espliciti attraverso riferimenti individualizzati.

Solo in tale ipotesi, infatti, ricorrendo la natura ingiuriosa ed offensiva delle espressioni utilizzate, si potrebbero ritenere configurabili il reato di cui all’art. 595 c.p. e, di conseguenza, l’illecito disciplinare di cui al D.Lgs. n. 109 del 2006.