Giudice garante dell'affidabilità scientifica in un giudizio sulla responsabilità medica

Con la sentenza del 22 marzo 2016 la IV sezione della Cassazione penale è tornata a interrogarsi sul ruolo del giudice di merito nell'attuale contesto, in cui la specializzazione dei saperi rende impraticabile che questi si sostituisca ai periti tutte le volte in cui siano necessarie approfondite conoscenze tecnicoscientifiche.

Come più volte affermato dalla giurisprudenza, il giudice è oggi chiamato ad esprimersi attivamente sulle valutazioni tecniche compiute nel corso del processo e a controllare l'affidabilità delle basi scientifiche utilizzate: deve, in altre parole, valutare l'operato dell'esperto (che trasferisce nel processo la sua conoscenza della scienza) e, nei casi critici, giungere a conclusioni atte a fornire informazioni sufficientemente attendibili da poter divenire elemento dell'argomentazione probatoria; ciò, anche valutando e comprendendo se dette informazioni possano trovare pacifica accettazione nella comunità tecnicoscientifica di riferimento. Solo in questo modo, difatti, il giudice può effettivamente elevarsi a custode e garante della verità processuale, anche quando ricavata per mezzo di perizie tecniche e scientifiche.

L'occasione per ripetere quanto affermato nasce dal ricorso proposto avverso una sentenza della Corte di Appello di Catanzaro, la quale, confermando quanto stabilito dal Tribunale di prime cure, ha assolto gli imputati dal reato di omicidio colposo, muovendo dal mancato raggiungimento della prova dell'efficienza causale delle condotte omissive comuni.

Nel caso di specie, un ginecologo era stato accusato di aver somministrato ad una gestante (affetta peraltro da ipertensione e obesità) un farmaco in grado di produrre ipercontrattilità uterina nonchè di aver omesso di disporre il monitoraggio cardiotocografico continuo dall'inizio del travaglio; inoltre, le infermiere ostetriche erano state accusate di aver omesso di informare il personale medico delle condizioni della paziente e di sorvegliare l'esecuzione del monitoraggio, cagionando così la morte per asfissia del nascituro.

In sede di terzo grado, il ricorrente ha lamentato la circostanza che la Corte di Appello, sulla base soltanto di quanto enunciato dai cc.tt. del p.m., fosse giunta a conclusioni tali da stravolgere i principi di causalità dei reati colposi omissivi: in conformità con quanto affermato dai periti, la corte distrettuale sarebbe difatti dovuta giungere ad una pronuncia di condanna in quanto, indiscussa la condotta omissiva colposa, non era stata provata l'assenza di responsabilità degli imputati.

Gli Ermellini hanno considerato fondato il ricorso; e ciò, pur riconoscendo, allo stesso tempo, la correttezza della condotta della Corte di Appello che, nonostante la premessa sulla non contestata violazione delle leges artis, aveva effettivamente verificato se gli elementi processuali fossero idonei a far affermare se il decesso del nascituro era stato determinato, o meno, dalle condotte omissive.

In tema di causalità nei reati colposi, un principio consolidato afferma che debba essere esclusa la responsabilità dell'agente quando l'evento si sarebbe comunque verificato, in relazione al medesimo processo causale, nei medesimi tempi e con la stessa gravità od intensità, poiché in tal caso dovrebbe ritenersi che l'evento imputato all'agente non sarebbe stato evitabile (Sez. 4, n. 28782 del 09/06/2011 dep. 19/07/2011, Cezza, Rv. 250713; Sez. 4, n. 31980 del 06/06/2013 dep. 23/07/2013, Nastro, Rv. 256745; Sez. 4, n. 37094 del 07/07/2008 dep. 30/09/2008, Penasa, Rv. 241025).

Invero, nel corso della valutazione oggetto del caso in commento, la Corte di Appello aveva escluso la responsabilità, ossia la valenza causale della condotta omissiva colposa, la quale richiede quel giudizio ipotetico che prende il nome di controfattuale e che, nel caso di specie, può essere formulato chiedendosi se, qualora si fosse eseguito un monitoraggio continuo delle condizioni del feto, si sarebbe comunque determinato l'evento morte.

Nella sentenza impugnata, la risposta al giudizio controfattuale era stata negativa e aveva mosso dall'oggettiva impossibilità sia di identificare il momento dell'effettiva insorgenza della sofferenza, sia, conseguentemente, di affermare la compatibilità di un'azione salvifica con la possibile tempistica.

Viceversa, il ricorrente in Cassazione ha ritenuto che la risposta avrebbe dovuto, e debba, essere diametralmente opposta. I giudici della Suprema Corte, dal canto loro, hanno considerato che sarebbe stato necessario soffermarsi su ciò che in realtà costituisce il fulcro dell'intera struttura motivazionale, ossiao l'assenza di informazioni circa il tempo di insorgenza della sofferenza fetale ed il connesso giudizio relativo alla tipologia di intervento in astratto salvifico.

Secondo il loro dictum, pertanto, al fine di decidere la questione non può ritenersi sufficiente il lapidario richiamo da parte del giudice di merito alle conclusioni cui era pervenuto il perito di ufficio poiché non emerge, nel caso di specie, alcuna valutazione critica dell'operato di questi. Viene allora alla memoria una precedente sentenza in cui la stessa Corte di Cassazione definisce al meglio cosa debba intendersi per giudice quale "peritus peritorum": il "custode e garante della scientificità della conoscenza fattuale espressa al processo" (Sez. 4, n. 43786 del 17 settembre 2010 – dep. 13 dicembre 2010, Cozzini e altri, Rv. 248944).

Sennonchè. in un contesto storico, quale quello attuale, in cui è straordinaria e molteplice la specializzazione dei saperi, ipotizzare che il giudice possa sostituirsi al perito sembra, invero, procedimento immaginifico e avulso dal concreto , con il rischio che si giunga ,per tale via, a sottrarre al processo la funzione di vaglio critico degli elementi da assumere in seno al medesimo.

E' invece più verosimile che la figura del giudice possa oggi declinarsi come quella di custode attivo del dibattito (per attenerci al tema della sentenza in commento) medicoscientifico, mentre agli esperti dovrà essere riservato il differente ruolo di riprodurre nel processo il dibattito della comunità scientifica (e le diverse risultanze da esso derivanti). Da tale premessa non può che scaturire una rivalutazione della formula "judex peritus peritorum", secondo la quale, pertanto, il giudice dev'essere colui che, con l'aiuto degli esperti, individua il sapere accreditato idoneo ad orientare la decisione e ne fa un uso oculato, metabolizzando suo tramite la complessità della res controversa e pervenendo, in tale maniera, ad una spiegazione degli eventi che risulti comprensibile da chiunque, conforme a ragione ed umanamente plausibile. 

In tale ottica, si potrebbe essere portati a dire che debba quindi scomparire ogni rivendicazione di potere o di supremazia della figura del giudice, chiamato solo a rendersi controllore dell'affidabilità dell'operato degli tecnici; tuttavia, il caso in commento insegna che il ruolo del giudice risiede invero nel far evitare che la prova scientifica sia commutata in prova legale con eccessiva facilità e, soprattutto, senza intervenga alcuna valutazione critica da parte, appunto, del giudice stesso, che non deve quindi ridursi a mero servus peritorum.

Avv. Mario Benedetti e Dott. Nicolò Maria Salvi di BLB Studio Legale