Il finanziamento della lite da parte di terzi

Qualche mese fa, la Camera Arbitrale di Commercio Internazionale (ICCA) e l’Università Queen Mary di Londra hanno presentato una tavola rotonda sulle possibili implicazioni legali del cosiddetto third-party funding, con specifico riguardo alle controversie arbitrali del tipo Stato-investitore.

Il finanziamento delle spese di controversia da parte di terzi è una pratica che consente alla parte finanziata di avviare un procedimento, giudiziale o arbitrale, senza doverne sopportare le spese. In altri termini, l’investitore sostiene la totalità o parte dei costi della disputa, dietro una quota di quanto ottenuto dalla parte nel caso in cui esca vittoriosa dal giudizio. In caso di soccombenza, invece, il finanziatore perderà il capitale investito.

La tipologia di finanziamenti in parola non ha, tuttavia, ancora trovato espresso riconoscimento da parte dell’ordinamento italiano. Infatti, lo scenario appare dominato da un generale senso di incertezza sotto il profilo normativo. Inoltre, non è dato riscontrare prese di posizione né da parte della dottrina e né tantomeno della giurisprudenza. A completamento del quadro, non può evitare di rilevarsi come vi sia anche una generale inconsapevolezza da parte di professionisti e giuristi.

In realtà, la situazione di incertezza in discorso ben potrebbe dipendere dal fatto che la pratica negoziale in questione è originariamente sorta nei sistemi giuridici di common law ed è quindi – almeno per il momento – pressoché estranea alla tradizione degli ordinamenti di civil law. Ciò nonostante, diversi investitori professionali hanno già manifestato un certo interesse per il mercato italiano. Per tale ragione, occorre domandarsi se il finanziamento delle spese di controversia come descritto sopra possa ritenersi ammissibile in Italia.

L’unica norma dell’ordinamento italiano che interessa il finanziamento della lite concerne il divieto del cosiddetto patto quota lite, inerente alla pattuizione del compenso tra avvocato ed assistito. Il divieto di tali operazioni discende dall’art. 13 della l. 247/2012, il quale dispone che, seppur la pattuizione dei compensi dell’avvocato sia libera, il professionista non può – pena la sospensione dall’esercizio dell’attività professionale da due a sei mesi – concordare con l’assistito un compenso consistente in tutto o in parte nella quota del bene oggetto della prestazione o della ragione litigiosa.

La ratio della norma citata, ampiamente criticata dalla categoria e ritenuta ormai anacronistica nella propria concezione, originava dalla necessità di salvaguardare l’indipendenza e l’imparzialità dell’avvocato: le motivazioni sottese a detta previsione venivano ricondotte al fatto che il professionista forense non avrebbe potuto mantenere la giusta serenità ed obiettività nello svolgimento del proprio mandato.

In ogni caso, l’ambito di applicazione della norma non sembrerebbe potersi estendere fino ricomprendere anche l’attività del finanziatore professionale. A supporto di tale interpretazione, soggiacciono due ordini di considerazioni: da un lato, la giurisprudenza di legittimità ha specificato che tale divieto è valido esclusivamente rispetto all’attività svolta in sede giurisdizionale dai professionisti abilitati al patrocinio, non inerendo, di contro, altre figure professionali che pur si affiancano al cliente, come ad esempio il consulente del lavoro; dall’altro lato, il patto di quota lite non costituisce una particolarità della nostra giurisdizione, ma è vietato anche in altri sistemi giuridici, come quelli tedesco e austriaco, i quali, tuttavia,  riconoscono pacificamente la possibilità di ricorrere al finanziamento della lite da parte di terzi.

A primo impatto, quindi, sembrerebbe possibile immaginare anche per l’Italia il radicamento di tale pratica di finanziamento, ma, a tal punto, si rendono necessarie alcune considerazioni.

Innanzitutto, non può evitare di osservarsi come, agli occhi dei finanziatori, la giurisdizione italiana possa risultare meno attraente di altre. In tal senso, sembra opportuno sottolinearsi che quella dell’eccessiva lungaggine dei processi italiani è una realtà tristemente nota in tutto il mondo. Per questa ragione, i finanziatori, che generalmente sono interessati a massimizzare i loro investimenti nel modo più veloce possibile, potrebbero essere maggiormente persuasi ad investire in altri contesti.

In secondo luogo, permettere un finanziamento di questo tipo potrebbe facilmente determinare l’insorgere di conflitti di interessi tra il finanziatore e la parte processuale. In particolare, potrebbero insorgere pressioni da parte del finanziatore che, nelle more del giudizio, potrebbe interferire costringendo il finanziato a definire la disputa in via transattiva con la controparte, in modo tale da minimizzare l’incertezza ed il rischio di perdere il capitale investito. Sotto questo punto di vista, il finanziatore possiede sicuramente un interesse nell’esito della lite e, essendo indubbiamente il soggetto finanziato la parte debole del rapporto, è ragionevole ritenere che la sua libertà di gestione della controversia potrebbe uscirne facilmente danneggiata.

Altri motivi di preoccupazione trovano poi fondamento nella relazione tra finanziatore ed avvocato della parte finanziata. Occorre, infatti, rilevare che i doveri del difensore devono essere orientati a servire al meglio le ragioni del proprio cliente. In altre parole, non sembrerebbe esserci in questo tipo di relazione professionale alcuno spazio disponibile per gli interessi del finanziatore, non potendosi però allo stesso tempo escludere a priori un rischio di interferenza dello stesso.

In terzo luogo, deve essere sottolineato che permettere un finanziamento di questo tipo potrebbe avere effetti sul diritto di accesso alla giustizia. La pratica in esame incoraggerebbe infatti l’avvio di giudizi di alto valore per tutti quei soggetti che non dispongono di risorse sufficienti. Ciò, anche sulla base del fatto che, ai fini del gratuito patrocinio, è necessario un reddito molto basso (€ 11.369, 24).

Vero è che il finanziamento potrebbe contribuire a garantire l’effettività del diritto di difesa – che è un diritto costituzionalmente sancito – e a salvaguardare il diritto ad un giusto processo ai sensi dell’art. 6 della Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo. Tuttavia, non può non essere osservato come un’estensione delle opportunità di accesso alla giustizia potrebbe incrementare in modo significativo il numero di pretese azionabili in giudizio, determinando così un aggravio di lavoro per gli uffici giudiziari ed un incremento di spese per lo Stato italiano.

Vale la pena però sottolineare che, al di fuori delle considerazioni sopra esposte, dal punto di vista giuridico, nulla sembrerebbe impedire l’altrui finanziamento della lite e, pertanto, tale pratica ben potrebbe essere considerata compatibile con il nostro sistema legale senza confliggere con nessun principio di ordine generale.  

Tuttavia, la questione potrebbe necessitare di una riflessione circa lo schema contrattuale applicabile all’altrui finanziamento della lite: a tal proposito, si potrebbe immaginare l’applicazione del contratto tipico di associazione in partecipazione (art. 2549 cod. civ.), il quale pare estremamente vicino al fenomeno in questione. Nell’ordinamento italiano, l’associazione in partecipazione è un accordo con cui l’associante attribuisce ad un’altra parte (l’associato) il diritto alla partecipazione agli utili della propria impresa o di uno o più affari, verso il corrispettivo di un determinato apporto. Ad una prima analisi, sembrerebbe lo schema maggiormente confacente con gli scopi perseguiti dalle parti investitore – attore, anche se rimarrebbe comunque da definire la posizione dell’avvocato.

Pare infine rilevante sottolineare che, nell’ambito del nostro ordinamento, l’attività di finanziamento professionale delle liti dovrebbe essere considerata come attività di concessione di finanziamenti sotto qualsiasi forma, cadendo così nell’ambito di applicazione dell’art. 106 del D. Lgs. 385/1993 (Testo Unico Bancario). Di conseguenza, il cessionario dovrebbe, a pena di nullità per contrarietà a norme imperative, far sì che la sua attività sia espressamente autorizzata attraverso un’iscrizione all’albo degli intermediari finanziari tenuto dalla Banca d’Italia.

A conclusione di questa prima analisi, sembrerebbe potersi dire che il finanziamento della lite da parte di terzi potrebbe, oltre che facilitare l’accesso alla giustizia, giocare anche un ruolo fondamentale nel mitigare il rischio della lite o dell’arbitrato, e, soprattutto, diventare un’opportunità economica per l’Italia. Tale pratica, tuttavia, si presta a facili inconvenienti sul piano pratico, sui quali occorrerebbe un intervento legislativo che possa incentivare il finanziamento, prevedendo in ogni caso gli opportuni correttivi rispetto alle disfunzioni che l’applicazione delle logiche di mercato nell’esercizio della giurisdizione  portano con sé.