Lodo arbitrale, clausola compromissoria e impugnabilità: Corte Cost. n. 13/2018

Dopo l’intervento delle Sezioni Unite della Corte di Cassazione, con le sentenze gemelle del maggio 2016, la Corte Costituzionale è stata investita della questione circa la natura processuale o sostanziale della norma in materia di impugnabilità del lodo arbitrale, e delle conseguenze in relazione all’applicazione di tale regola a seguito dell’intervento modificativo operato dal legislatore nel 2006 in termini di uguaglianza e di autonomia privata e libertà contrattuale.

Per comprendere il senso e la rilevanza, anche pratica, della questione, occorre anzitutto ricordare che, in generale, il lodo rituale ha una maggiore “stabilità” rispetto a una sentenza dell’autorità giudiziaria ordinaria.

Infatti (al di là della revocazione e dell’opposizione di terzo) lo strumento per impugnare il lodo è l’azione di nullità ex art. 828 c.p.c. e tale azione è un mezzo di impugnazione a critica vincolata, ossia proponibile solo per i motivi di cui all’art. 829 c.p.c.

Fino alla riforma del 2006, questi motivi erano nove (art. 829, c. 1. c.p.c., vecchio testo); con la riforma del 2006 sono diventati dodici e sono elencati nel vigente art. 829, c. 1, c.p.c.

Si tratta di motivi attinenti non al merito della controversia, ma a vizi del procedimento (vizi di attività o errores in procedendo). Il che, come si ricordava, comporta che il lodo sia più difficilmente impugnabile rispetto a una sentenza. Il rimedio per censurare nel merito il lodo è in realtà rappresentato dal motivo fondato sulla violazione delle regole di diritto relative al merito della controversia (ossia la violazione o falsa applicazione di norme di diritto).

La questione.

La questione portata all’attenzione del Giudice delle Leggi è la seguente.

L’art. 829, comma 3, c.p.c., regola l’impugnabilità del lodo arbitrale: tale norma ha subito, nel tempo, un radicale mutamento, attuato con il D. Lgs. 40/2006.

Infatti, prima della riforma, il principio generale espressamente riconosciuto si sostanziava in ciò che, in caso di errores juris in judicando, il provvedimento reso dalla Corte Arbitrale era passibile di impugnazione, salvo il caso in cui le parti avessero espressamente richiesto un giudizio secondo equità, ovvero avessero concordato la non impugnabilità in toto della pronuncia.

Quindi, in caso di convenzione arbitrale che nulla prevedesse circa l’impugnabilità nel merito per errori di diritto, il silenzio delle parti era da intendersi come assenso.

Con il D. Lgs. 40/2006, vi è stata una totale inversione.

L’attuale terzo comma, infatti, prescrive che l’impugnabilità per violazione delle regole di diritto relative al merito della controversia è ammessa solo se tale volontà sia frutto di espressa disposizione di legge o delle parti (o in contrasto con l’ordine pubblico). Diversamente, è da ritenersi preclusa.

La rilevanza della problematica di diritto intertemporale.

Il Decreto summenzionato, peraltro, prevedeva che la nuova disciplina dovesse applicarsi a tutti i procedimenti arbitrali promossi a far data dal 2 marzo 2006, in coincidenza con l’entrata in vigore delle modifiche.

Poiché le disposizioni transitorie non facevano distinzione circa l’ipotesi in cui il procedimento arbitrale fosse innestato – seppur successivamente al 2 marzo 2006 –  in virtù di una convenzione arbitrale stipulata in vigore della precedente o della nuova normativa, nel 2016 si sono espresse le SS.UU., con le c.d. “sentenze gemelle” nn. 9284, 9285 e 9341 del 2016.

Secondo gli Ermellini, il mutato regime di impugnabilità del lodo non sarebbe applicabile ai giudizi arbitrali promossi dopo il 2 marzo 2006, se azionati in forza di convenzioni di arbitrato stipulate prima della riforma.

Tale orientamento, tuttavia, ha destato la contrarietà della Corte d’Appello di Milano che, sollevando questione di costituzionalità, paventava una violazione degli artt. 3 e 41 Cost.

Sottolineavano i giudici di merito che il discrimen operato dalle SS.UU. – da intendersi “diritto vivente” superabile solo con una pronuncia costituzionale – ponesse, in realtà, un’ingiustificata differenziazione, ponendo sul medesimo piano un atto sostanziale (la clausola compromissoria) e uno procedurale (l’impugnazione del lodo arbitrale). Differenziazione che non trasparirebbe né dal tenore letterale della legge, né sarebbe in linea con il principio del tempus regit processum, in ragione del quale il procedimento civile è regolato nella sua interezza dal rito vigente al momento della proposizione della domanda, salva la disposizione di legge transitoria.

Inoltre, veniva riscontrata dalla Corte di merito la non manifesta infondatezza circa l’ingiustificata lesione del principio di autonomia privata e della libertà contrattuale, in tanto in quanto il consenso ad impugnare il lodo arbitrale quando le parti non avessero previsto espressamente tale facoltà, avrebbe permesso un’ingerenza discriminatoria rispetto all’assetto determinato e voluto da queste ultime.

L’intervento della Corte Costituzionale, tuttavia, riconosce piena legittimazione all’interpretazione, invero costituzionalmente orientata, operata dalla Cassazione a Sezioni Unite, dichiarando la questione infondata.

Il principio di cui all’art. 3 della Carta Fondamentale, ribadisce la Corte, è da intendersi come uguaglianza sostanziale, per cui non vi è alcuna violazione nel caso in cui a due situazioni fattuali differenti corrispondano altrettanti trattamenti differenti.

E ciò vale anche con riguardo al caso di specie: chiaro infatti è che alle parti che avessero stipulato un accordo di devoluzione delle controversie ad arbitri prima dell’entrata in vigore delle modifiche legislative del 2006, non potrebbe applicarsi la nuova normativa: altrimenti ragionando, si giungerebbe al paradosso di trattare in modo eguale situazioni ontologicamente differenti.

La Corte, riprendendo le motivazioni espresse dai giudici di legittimità, ha ribadito l’errato sillogismo operato dalla Corte d’Appello di Milano, le cui premesse giacevano sulla considerazione per cui la norma ex art. 829, comma 3 c.p.c., avesse una portata esclusivamente processuale, in contrapposizione con quella sostanziale della clausola compromissoria.

D’altra parte, come si legge, “la natura processuale dell’attività degli arbitri non esclude che sia pur sempre la convenzione di arbitrato a  determinare i limiti di impugnabilità dei lodi”; né, potrebbe dirsi violato il principio del tempus regit processum, in quanto, se fosse stata una questione meramente processuale, non vi sarebbe stato bisogno di regolare, con disciplina transitoria, le potenziali questioni di diritto intertemporale.