Detenzione di materiale pornografico: il trasferimento dei file in supporti hardware integra il dolo

In questi termini si è recentemente espressa – con sentenza del 19 ottobre 2017, n. 48175 – la Terza Sezione Penale della Corte di Cassazione in punto di elemento soggettivo del reato di detenzione di materiale pornografico realizzato mediante lo sfruttamento sessuale dei minori di anni diciotto.

La diffusione di Internet e la proliferazione di programmi informatici che consentono il cd. ‘‘file sharing’’, ossia la condivisione di file tra utenti di Internet tramite un server comune, ha contribuito ad accrescere l’odioso fenomeno della pedopornografia e della sua fruizione on line.

In tale ottica, il Legislatore, con la legge 06.02.2006, n. 38 – cui si deve la ‘‘riscrittura’’ del delitto in esame –, introducendo l’espresso riferimento alla condotta del ‘‘detenere’’ in sostituzione di quella del ‘‘disporre’’ materiale pornografico, ha avvertito l’esigenza di estendere il concetto di possesso o di disposizione materiale, oltre che al tradizionale supporto cartaceo o fotografico, a Cd-Rom, memorie USB, Micro-Sd e dischi fissi di un Personal Computer; in tal guisa si è consentita anche alle immagini scaricate da internet o comunque immagazzinate nei computers l’agile riconduzione nella più ampia nozione di “detenzione”.

Per ciò che nello specifico riguarda il caso scrutinato dalla Corte, l’imputato, che aveva conservato in HD diversi file pedopornografici, lamentava come la condanna comminatagli dal Giudice del gravame avesse trascurato l’indagine sulla effettiva consapevolezza dolo diretto – dell’attività di download, di salvataggio, trasferimento e backup dei file, posto che dall’accertamento tecnico espletato non era stata rinvenuta alcuna stringa di ricerca nel programma e-Mule, né alcuna parola chiave.

Chiamati a pronunciarsi sulla esposta ragione di doglianza, i supremi giudici di legittimità ne hanno rilevato la palese infondatezza ritenendo che l’allocazione dei file in diversi supporti hardware – e persino nel cestino –, avesse rappresentato un contegno idoneo ad integrare la prova della consapevolezza del contenuto offensivo degli stessi.

A tal proposito, gli Ermellini, con motivazione chiara e lineare, hanno avuto modo di statuire che: ‘‘l’attività di sistemazione dei file in diversi supporti […] contrasta con la tesi del salvataggio inconsapevole poiché è evidente che tale attività comporta un intervento diretto dell’autore che dimostra di avere il pieno e consapevole dominio dell’azione. Né è manifestamente illogico ritenere che tale attività comporti una selezione del materiale diversamente allocato, parte del quale addirittura cestinato. A maggior ragione se si tratta di file il cui nome evoca il possibile contenuto pedopornografico’’.

Dalle superiori considerazioni il Collegio giudicante ha quindi concluso per l’irrilevanza della mancata presa visione del materiale informatico – dedotta dal ricorrente –, tenuto conto che, ai fini della prova del dolo del reato de quo, non è necessario che l’autore ne visioni il contenuto allorché lo stesso possa essere inequivocabilmente desunto da altri indicatori esterni, quali il nome del file o l’indirizzo informatico di provenienza.