I RAPPORTI DI LAVORO “ ON DEMAND” IL CASO UBER RIFLESSI NAZIONALI E DISEGNO DI LEGGE

È di qualche giorno fa, la sentenza del Tribunale del Lavoro di Londra che ha respinto l’appello di Uber, confermando gli effetti della pronuncia di primo grado, con la quale il giudice di prime cure aveva riconosciuto ai drivers della startup americana, i diritti e le tutele spettanti ai lavoratori dipendenti, ed in particolare il diritto a un salario minimo, nonché a ferie e riposi pagati.

La Corte inglese non ha ritenuto corretto - come invece sosteneva Uber – configurare la prestazione lavorativa dei drivers in termini di lavoro autonomo, reputando quest’ultimi assimilabili alla figura giuridica dei “workers” e di conseguenza, qualificando il rapporto di lavoro a metà tra il rapporto di lavoro autonomo e quello dipendente.

In realtà, il problema dell’inquadramento dei rapporti di lavoro c.d.“on demand” nel contesto giuridico degli ordinamenti nazionali è piuttosto diffuso, e non riguarda soltanto Uber, ma anche altre società, come Deliveroo e Foodora, operanti nel settore del food delivering.

La sentenza della Corte inglese, ripropone pertanto il problema dell’inquadramento giuridico delle prestazioni di lavoro che basano le proprie operazioni su piattaforme digitali, svolte - con riferimento ai tempi e al luogo di lavoro - secondo modalità stabilite dal committente, anche se rese prevalentemente o esclusivamente al di fuori della sede dell’impresa, e che richiedono, un’organizzazione, seppur minima, di beni e di strumenti di lavoro da parte del lavoratore.

La dottrina giuslavoristica ha definito tale fenomeno gig economy, caratterizzato da un modello economico basato su prestazioni lavorative intermittenti e flessibili, in cui i lavoratori, i c.d. gig workers, offrono - facendosi carico dei mezzi - prestazioni on demand – cioè solo quando c’è richiesta – per i propri servizi, prodotti o competenze.

In quest’attività lavorativa, che si colloca in una zona grigia tra il lavoro da freelance e quello da dipendente, gli elementi di subordinazione sono nondimeno numerosi, come il fatto di essere tenuti a indossare un’uniforme aziendale, di avere un orario concordato, turni stabiliti e un luogo prefissato di partenza per le consegne, senza trascurare l’elemento del controllo a distanza operato mediante la geolocalizzazione costante e in tempo reale dell’operatore. Tutti questi elementi evidenziano la sottoposizione dei lavoratori a una organizzazione del lavoro – secondo modalità - stabilite dall’azienda.

In Italia, i rapporti di lavoro resi attraverso le piattaforme di crowdwork non sono attualmente regolate da leggi specifiche, e la legislazione del lavoro esistente non è adatta a regolare tali tipologie di lavoro.

Un tentativo in tal senso, è stato fatto con il D.lgs n. 81/2015 che, da un lato, ha introdotto la nuova figura delle collaborazioni organizzate dal committente, per le quali trova applicazione la disciplina del lavoro subordinato, mentre dall’altro lato, ha fatte salve le tradizionali collaborazioni coordinate e continuative ai sensi dell’art. 409, n. 3 c.p.c.

La sopravvivenza delle collaborazioni continuative e coordinate, riconosce all’autonomia privata individuale il potere di ricorrere, anche al di fuori delle ipotesi tipiche previste dal codice civile, a forme di lavoro autonomo coordinato e continuativo, per regolare – come nel caso di specie - fattispecie giuridiche che presentano di fatto numerosi aspetti di subordinazione.

In caso di stipulazione di un contratto di collaborazione coordinato e continuativo (Co.co.co), in ipotesi diverse da quelle ammesse ex art. 2 co. 2 D.lgs 81/2015, l’applicazione – a tali fattispecie - della tutela propria del lavoro subordinato, dipende dalle caratteristiche della prestazione, che deve presentare congiuntamente carattere esclusivamente personale, continuativo e le cui modalità di esecuzione sono organizzate dal committente quantomeno con riferimento ai tempi e al luogo di lavoro.

Nondimeno, affinché la tutela propria del lavoro subordinato possa estendersi ai Co.co.co., già prevista per le forme di collaborazione organizzate dal committente, non sarà sufficiente la sola etero-organizzazione del lavoro ma una vera e propria etero-direzione ai sensi dell’art. 2094 c.c. (ved. circolare del Ministero del Lavoro n. 3/2016).

Circostanza, non rinvenibile nelle forme di collaborazione intrattenute - tra gli altri - da Uber, Foodora, Deliveroo con i propri lavoratori.

Per colmare tale vuoto legislativo, l’8 febbraio 2017 è stata presentata la proposta di legge n. 4283, attualmente alla Camera, contenente disposizioni concernenti le prestazioni di lavoro con modalità di esecuzione organizzate o coordinate dal committente.

L’art. 1 estende la disciplina del rapporto di lavoro subordinato, ai rapporti di collaborazione non solo organizzati ma anche coordinati dal committente, anche se rese prevalentemente o esclusivamente al di fuori della sede dell’impresa, e che richiedono, un’organizzazione, seppur minima, di beni e di strumenti di lavoro da parte del lavoratore.

Attraverso tali precisazioni si è inteso pertanto escludere dall’ambito di applicazione delle disposizioni di cui all’art. 409 co. 3 c.p.c., le attività lavorative come quella svolta – ad esempio - dai lavoratori di Foodora.

L’art. 2 co. 1, al fine di contrastare l’ultra precarietà dei gig workers, elimina i limiti di età e di durata previsti dall’art. 13 co. 2-3 D.lgs n. 81/2015, consentendo al committente di fare ricorso al contratto di lavoro intermittente, qualora non intenda procedere all’assunzione facendo ricorso alle altre tipologie di contratto subordinato previste dalla legge.  

Il medesimo articolo, al co. 3 stabilisce che il committente deve riconoscere al lavoratore un’indennità per l’utilizzo di beni e di strumenti di proprietà del lavoratore per lo svolgimento delle prestazioni lavorative. L’indennità è dovuta anche per le spese di manutenzione sui medesimi beni e strumenti.

Il co. 4 dell’art. 2 stabilisce infine che, ai lavoratori inseriti in contratti di cui all’art. 1, devono essere assicurati adeguati tempi di riposo, a prescindere dalla fluttuazione della domanda del servizio o del prodotto offerto.

La proposta di legge – se venisse approvata – non solo confermerebbe l’orientamento espresso dalla Corte londinese, ma costringerebbe le società operanti sul territorio nazionale con modalità di lavoro on demand, ad adeguare i rapporti contrattuali con i lavoratori, riconoscendo loro – tra l’altro - il diritto al salario minimo garantito, al riposo settimanale e alla ferie retribuite.